Un arazzo delle dame piemontesi in dono a papa Leone XIII



Un arazzo delle dame piemontesi in dono a papa Leone XIIIDa qualche mese la duecentesca sala delle udienze del palazzo dei papi di Rieti, sede della Pinacoteca Diocesana, si è arricchita di un grande arazzo ottocentesco, realizzato nel 1887 dal laboratorio delle sorelle Piovano, destinato ad essere offerto in dono dalle dame dell’aristocrazia piemontese a papa Leone XIII nella ricorrenza del cinquantenario dalla sua ordinazione sacerdotale. L’arazzo in questione, dalle notevoli dimensioni (cm. 600 x 800) e dall’originale apparato iconografico, costituisce una singolare testimonianza del clima culturale, morale, ideologico in cui il 20 febbraio 1878 maturò l’elezione al soglio pontificio del cardinale Gioacchino Pecci.

Arazzo di papa Leone XII
Vincenzo Gioacchino Pecci, figlio di un’antica famiglia dell’aristocrazia  locale, era nato a Carpineto Romano il 2 marzo 1810 ed aveva compiuto gli studi a Roma dapprima presso i Gesuiti, poi all’accademia dei nobili ecclesiastici.
Ordinato sacerdote nel 1837, era stato a Benevento, a Spoleto ed a Perugia in qualità di legato, prima di essere inviato come nunzio apostolico a Bruxelles. Da qui fu richiamato nel 1846 a Perugia, per assumervi la cattedra episcopale.
Nel 1857 fu creato cardinale e venti anni più tardi fu nominato camerlengo.
Alla morte di Pio IX, sopravvenuta il 7 febbraio 1878 dopo trentadue anni di pontificato, si aprì il primo conclave destinato ad eleggere un pontefice privo di prerogative politiche: dopo appena due giorni di consultazioni, al terzo scrutinio, il 20 fe bbraio  il Sacro Collegio elesse il cardinale Pecci, consacrato il 3 marzo successivo in San Pietro con il nome di Leone XIII. Già nel mese di aprile, il nuovo papa pubblicò la sua prima enciclica, dal titolo Inscrutabili, per ribadire la denuncia della perdita del potere temporale, ma nel corso dei venticinque anni del suo pontificato papa Leone XIII seppe far maturare gli orientamenti culturali ed i temi pastorali della dottrina sociale della Chiesa, come dimostrano le successive encicliche Aeterni Patris (1879) che riafferma il tomismo alla base della filosofia cristiana, Arcanum (1880) sull’indissolubilità del  matrimonio, Diuturnum (1881) sui doveri dell’esercizio politico, Immortale Dei (1885) sulla costituzione cristiana degli Stati, Christianum (1890) sull’emancipazione degli schiavi, Rerum novarum (1891) sul mondo del lavoro, Providentissimus (1893) sullo studio della Sacra Scrittura a cui fece seguito l’istituzione della Commissione Biblica, Praeclara (1894) in cui si auspica la riconciliazione ed il ritorno dei dissidenti in seno alla Chiesa, Graves de communi re (1901) in cui si ribadiscono i principi della Rerum novarum e si gettano i fondamenti di un programma politico cristiano.
Per onorare degnamente la felice ricorrenza del 50° anniversario dall’ ordinazione sacerdotale di papa Leone XIII le nobildonne torinesi più attive e vicine agli ambienti di curia, solerti e zelanti nelle pratiche di carità, forse in muto e sofferto disaccordo con l’anticlericale politica sabauda, commissionano al laboratorio delle sorelle Piovano il grande arazzo che con la sua raffinata ed eloquente iconografia assolve al compito di rappresentare il vitale fermento della Chiesa piemontese.
Così come nel 1854 i cattolici di Lione avevano donato a papa Pio IX il piviale dell’Immacolata, e Napoleone III aveva inviato a Vittorio Emanuele, alla vigilia della presa di Porta Pia, un arazzo raffigurante Roma capitale al centro delle principali città d’Italia, i cui nomi erano scritti in francese, le dame di Torino vogliono offrire al papa un segno tangibile e significativo della loro dedizione alla santa causa della Chiesa.
La superficie ortogonale dell’arazzo, lavorato in pannelli abilmente connessi, si ordina all’interno di una elegante, ampia cornice a volute fitomorfe che include ai bordi laterali i profili di San Pietro e San Paolo, in due medaglioni ovali che spiccano nel festone di fiori e foglie intrecciate sostenuti da graziosi e paffuti angioletti.
Le immagini dei due Apostoli sono associate ai rispettivi emblemi parlanti, che li rendono ancor più manifestamente riconoscibili: San Pietro ha le mani giunte in preghiera, i pugni serrati a guardia delle chiavi del Regno, San Paolo stringe invece l’elsa della sua spada.
Con analoga, efficace simmetria, in alto al centro della cornice è lo stemma di papa Leone XIII, campito d’azzurro, con il  cipresso simbolo di incorruttibilità piantato su una pianura, il tutto di verde, alla fascia d’argento attraversante, accompagnata nel cantone destro del capo da una stella cometa d’oro disposta in sbarra e in punta da due gigli d’oro.
In basso è invece lo stemma dell’ arcivescovo di Torino, il cardinale Gaetano Alimonda, con il cartiglio ET MUNDO CORDE, citazione dal salmo XXIII (3,4) che evoca la sesta beatitudine.
Gaetano Alimonda, genovese di nascita, già vescovo di Albenga,  aveva collaborato con papa Leone XIII come  ufficiale di curia. Proprio da questo pontefice nel 1879 era stato creato cardinale con il titolo di Santa Maria in Transpontina. Dal 1883 al 1891, anno della sua morte, fu arcivescovo di Torino.
È plausibile che il cardinale abbia contribuito all’ideazione dei temi iconografici dell’arazzo, dal forte richiamo alla dimensione caritativa e missionaria della pastorale che segnò il pontificato di papa Leone XIII.
L’ampia superficie ortogonale dell’arazzo è concepita nel rispetto di un serrato ordine geometrico.
La cornice floreale impagina una circonferenza nella quale è raffigurata l’immagine simbolica della Carità, mentre nei quattro spigoli trovano spazio delle vedute, concepite secondo le regole della pittura di paesaggio.
I panorami non si limitano però ad avere una valenza illustrativa: essi infatti raffigurano la chiesa di Santa Giulia, la casa di accoglienza del Cottolengo, la sede degli Artigianelli, la Casa generalizia della congregazione di Santa Maria Ausiliatrice, dunque  i luoghi in cui hanno sede le principali istituzioni assistenziali e caritative operanti in Piemonte nel corso dell’Ottocento .
La Piccola Casa della Divina Provvidenza nel quartiere di Valdocco, riprodotta nelle sue semplici linee di impianto neoclassico, è il luogo simbolo dell’attività del  reverendo Giuseppe Benedetto Cottolengo, beatificato nel 1917 da papa Benedetto XV, canonizzato da papa Pio XI nel 1934.
Il Cottolengo vi condusse un’intensa, infaticabile opera al servizio degli emarginati, sostenuto e  coadiuvato da alcune pie benefattrici, come Marianna Nasi Pullino, a cui si unirono presto le Suore Vincenzine, i Fratelli di San Vincenzo,  i Sacerdoti della SS.ma Trinità.
Modesto ed austero è l’edificio del Collegio degli Artigianelli di corso Palestro, dal 1863 sede definitiva della pia istituzione fondata nel 1849 da don Giovanni Cocchi.
Qui gli orfani ed i più poveri tra i figli del proletariato torinese erano accolti fino al compimento del diciannovesimo anno di età, formati cristianamente ed indirizzati ad esercitare i mestieri di fabbro, falegname, tipografo e rilegatore. Dal1866, il rettore don Giovanni Murialdo assunse la guida del collegio degli Artigianelli.
Il pio sacerdote avrebbe più tardi impresso una svolta all’istituzione educativa promuovendo la fondazione della Congregazione di San Giuseppe.

L’armoniosa facciata della chiesa di Santa Maria Ausiliatrice evoca l’opera delle religiose salesiane di Suor Maria Domenica Mazzarello che, incoraggiata in gioventù dal parroco don Pestarino ad aderire alla comunità delle Figlie dell’Immacolata, nel 1872 intraprese con don Bosco la fondazione dell’Istituto. Nel 1879, la casa madre fu trasferita a Nizza Monferrato, dove madre Maria Domenica Mazzarello morì nel 1881 a soli quarantaquattro anni di età. Alla sua morte, l’Opera delle Figlie di Santa Maria Ausiliatrice contava già 165 suore e 65 novizie ed era attiva, oltre che in Italia, in Francia ed in America.
La chiesa di  Santa Giulia,infine, ricorda l’attività delle Sorelle Penitenti di Santa Maria Maddalena, ispirate dalla marchesa Giulia Falletti di Barolo, primo nucleo della congregazione delle Figlie di Gesù Buon Pastore.
Giulia Vittorina Colbert de Maulevrier, nata in Francia nel 1786, era andata in sposa a Carlo Tancredi Falletti di Barolo.
La marchesa di Barolo fu infaticabile promotrice di istituzioni volte a migliorare la condizione delle donne  con particolare, sensibile ed innovativa attenzione verso il recupero delle carcerate ed a promuovere la cura dell’infanzia abbandonata.
Tra le istituzioni da lei fondate e generosamente finanziate, si enumerano una mensa per i poveri e vari asili d’infanzia, e si segnalano per la modernità dell’approccio d’intervento il Rifugino per le ex carcerate e per le giovani in pericolo di traviamento morale, che qui trovavano il modo per apprendere un mestiere, e l’Ospedale di Filomena per l’assistenza ai bambini disabili.
La gestione di queste pie istituzioni fu affidata alle Sorelle Penitenti di Santa Maria Maddalena – oggi Figlie di Gesù Buon Pastore – e alle Suore di Sant’Anna della Provvidenza.
La superficie dell’arazzo delimitata dalla cornice, libera dalle raffigurazioni paesaggistiche evocatrici delle attività caritative ed assistenziali promosse dalla  Chiesa piemontese, espressione del singolare, operoso spirito di collaborazione    condiviso dalle le dame torinesi, committenti dell’opera, si presta ad includere     in ordinati medaglioni la raffigurazione vivace e ordinata degli emblemi parlanti dei quattro Evangelisti, l’angelo di San Matteo, il bue di San Luca, il leone di San Marco, l’aquila di San Giovanni.
L’angelo che sorregge il cartiglio con il nome dell’evangelista Matteo è un biondo giovanetto alato dal volto sereno e compunto, il bue che poggia sullo zoccolo il cartiglio con il nome dell’evangelista Luca è raffigurato con sensibile realismo, il leone e l’aquila, che simboleggiano con la loro immagine gli evangelisti Marco e Giovanni, sono accuratamente rappresentati nella superba bellezza propria della loro specie.
All’interno della circonferenza che costituisce il nucleo centrale dell’arazzo, si compone una scena animata, popolata da una pluralità di personaggi che
rendono manifeste le attività di assistenza e di cura promosse dalla Chiesa torinese, solerte ed attenta nel cogliere i profondi disagi della parte più debole della popolazione, capace di offrire una risposta che non delude le attese, unendo al conforto spirituale il sollievo alle più materiali esigenze. I bisogni a cui le nuove congregazioni religiose avevano saputo far fronte  per tutto il corso dell’Ottocento erano emersi da una società in rapida, profonda trasformazione qual era stata quella torinese, acuiti dai fenomeni dell’inurbamento delle plebi contadine, irresistibilmente attratte dalle lusinghe della capitale subalpina candidata al ruolo di capitale del futuro Regno d’Italia. All’eleganza ed all’ordine urbanistico della città che si sviluppava armoniosa intorno alla reggia sabauda si contrapponevano i malsani falansteri dei quartieri popolari di Moschino, Vanchiglia, Valdocco dove si addensava la povera gente, esposta ai rischi ed ai vizi, alle malattie ed alle devianze.
All’emergenza delle tante, profonde esigenze materiali e morali di questa popolazione negletta, offrivano zelante, instancabile conforto i  futuri Santi Cottolengo, Mazzarello e Murialdo, qui raffigurati nell’esercizio  quotidiano della loro attività.
Le immagini  di questi apostoli del bene  convergono intorno al trono stellato della Carità, la virtù che incarna la gratuità generosa del dono così com’è concepito secondo lo spirito cristiano.
La bella immagine muliebre, modellata sulla falsariga della medievale Maestà, siede sul trono, ha il capo circonfuso della luce brillante del nimbo, ma ha semplici vesti e piedi scalzi, povera fra i poveri, ricca soltanto della propria generosità.
La Carità ha gli occhi bassi, perché vuole osservare, non già essere osservata, pronta a cogliere ogni richiesta d’aiuto, ha le braccia tese ad accogliere chiunque si rivolga a lei. Tre infanti le stanno nel grembo: fra questi, un negretto dai tratti marcati, la cui immagine allude all’impegno della Chiesa torinese in terra di missione e denota la sensibilità con cui si affronta, in netto anticipo sui tempi, il problema dell’integrazione fra le razze.
Alla sinistra del trono il Cottolengo, finemente ritratto, guida ed incoraggia un giovinetto a rivolgersi con fiducia alla virtù della Carità, da cui ciascuno deve attendersi un aiuto, a cui chiunque, anche il più povero, deve offrire il suo contributo.
A terra, ai piedi del religioso, sono gli strumenti dei lavori artigianali a cui gli orfani, i diseredati, i poveri volenterosi sono avviati per trovare riscatto alla miseria della propria condizione.
Con altrettanta sollecitudine, una suora di carità dal bianco velo che le copre il profilo sostiene una fanciulla, sottratta ad un destino amaro di degradazione morale grazie al Rifugino delle Maddalenine o ai laboratori delle Giuliette.
Alla destra, sono invece portate ad efficace sintesi le attività di cura agli ammalati ed ai moribondi, rievocando un’immagine in cui è facile ravvisare l’iconografia della morte di San Giuseppe, il Santo protettore della famiglia e delle opere umili e preziose del lavoro dell’uomo, il cui nome tanto di frequente ricorre nelle attività assistenziali della marchesa di Barolo e del collegio degli Artigianelli.
L’arazzo donato dalle dame torinesi a Sua Santità papa Leone XIII in occasione del suo giubileo sacerdotale non è soltanto un omaggio devoto e gentile, ma è una dettagliata sintesi delle attività caritative intraprese dalla Chiesa di Torino, che dimostra così di aver saputo cogliere i tratti più vitali della cultura illuministica e positivista stemperandoli dall’esasperato laicismo sabaudo grazie all’esercizio generoso della virtù teologale della carità.
Si tratta dunque di un autentico manifesto, una dichiarazione d’intenti, una tacita dimostrazione di fedeltà agli ideali cristiani nella difficile temperie postunitaria, il cui messaggio fu affidato alle immagini ed all’abile raffinatezza di un lavoro di donne.

Ileana Tozzi



Lascia un commento...